
Separazione e divorzio
La separazione e il divorzio sono istituti giuridici differenti sotto il profilo della ratio e delle finalità perseguite.
Essi incidono in misura differente sui diritti e gli obblighi dei coniugi.
Il presente lavoro si propone di soffermarsi su alcuni dei suddetti diritti ed obblighi. In particolare, per il rilievo economico e sociale che rivestono, meritano di essere approfonditi: 1) il diritto al mantenimento; 2) i diritti successori; 3) la pensione di reversibilità; 4) il trattamento di fine rapporto.
Giova premettere che se la separazione determina un allentamento del rapporto di coniugio, potendo tramutarsi nella riconciliazione o nel divorzio; il divorzio, invece, recide definitivamente il vincolo matrimoniale tra i coniugi.
Questa diversità si coglie, sotto l’aspetto effettuale, in una tutela più forte riservata al coniuge economicamente più debole in sede di separazione e più attenuata nell’ipotesi di divorzio.
Il diritto al mantenimento
“L’assegno di mantenimento” viene riconosciuto in sede di separazione; in sede di divorzio, si parlerà, invece, di “assegno divorzile”.
Il provvedimento economico assunto dal giudice, o liberamente stabilito dalle parti in sede di regolamentazione della crisi famigliare è disciplinato nel nostro ordinamento dall’art. 156 c.c. in sede di separazione personale dei coniugi e dall’art. 5 L.898/70 in sede di divorzio. Va innanzi tutto esaminata la natura delle due previsioni. L’ art. 156 c.c. prevede che il Giudice pronunciata la separazione dei coniugi, stabilisce il diritto di ricevere dall’altro coniuge, quanto è necessario per il suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. La condizione per l’ottenimento dell’assegno di mantenimento è determinata dalla non addebitabilità al beneficiario della separazione. L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato.
L’art. 5 VI comma L. 898/70 dispone che con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e a quello comune, del reddito di entrambi e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro, quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive’.
Assegno di mantenimento
Nel caso in cui la separazione è consensuale sarà compito dei due coniugi, con la consulenza di un avvocato, stabilire, tra i vari punti dell’accordo, anche l’ammontare dell’importo dovuto per l’assegno di mantenimento. Il Tribunale, una volta accertata l’effettiva equità dell’accordo, soprattutto a tutela degli interessi di eventuali figli, provvederà all’omologazione delle condizioni determinando così la separazione legale. I dettagli sul mantenimento potranno poi essere modificati consensualmente senza sottostare ad un nuovo giudizio di omologazione. Differente, invece, il caso in cui ci sia un mancato accordo tra i coniugi oppure ci sia una specifica richiesta di addebito della separazione da parte di uno dei due. In questo caso sarà compito del giudice stabilire a chi attribuire le eventuali violazioni degli obblighi matrimoniali (che non potrà beneficiare dell’assegno) e dettare le varie condizioni all’interno di un procedimento di separazione giudiziale. La determinazione dell’assegno di mantenimento (che si fa comunque anche se nessuna delle parti ha chiesto l’addebito) è strettamente connessa all’individuazione della parte che risulta più svantaggiata a causa della sospensione del vincolo matrimoniale, qualora non sia in grado di garantire lo stesso tenore di vita di cui godeva in precedenza. Il compito del giudice, infatti, sarà quello di riequilibrare le reali capacità economiche della coppia separata stabilendo il giusto valore del mantenimento. Nell’eventualità di un inadempimento da parte del coniuge obbligato a corrispondere l’assegno, il giudice potrà disporre del sequestro dei beni o richiedere a terzi il versamento del denaro dovuto.
Assegno divorzile
Per circa trent’anni il criterio guida nell’interpretazione dell’art. 5, sesto comma, della legge sul divorzio è stato quello di attribuire all’avente diritto un assegno tale da consentirgli di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.
Tale posizione interpretativa, fortemente criticata da quella dottrina timorosa che ciò potesse creare ingiustificate “rendite di posizione”, è stata poi progressivamente superata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 11504 del 2017 che ha affermato l’orientamento opposto, negando il riconoscimento dell’assegno divorzile al richiedente che fosse economicamente autosufficiente (in tal senso si veda anche la sentenza n. 23602/2017).
L’acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale sorto tra i due contrapposti orientamenti è culminato nel noto intervento delle Sezioni Unite, che con la recente sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018 hanno adottato una linea interpretativa di totale rottura rispetto al passato, sintetizzata nei punti che seguono:
a) definitivo abbandono di entrambi i criteri (tenore di vita ed autosufficienza economica del richiedente) posti alla base dei contrapposti orientamenti sopra richiamati;
b) superamento della struttura necessariamente bifasica del procedimento di determinazione dell’assegno divorzile, abbandonando così la distinzione fondata sulla natura attributiva o determinativa dei criteri richiamati dall’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio;
c) disconoscimento di una funzione meramente assistenziale all’assegno divorzile, a favore di una natura composita dello stesso, che alla funzione assistenziale unisce quella perequativa e compensativa;
d) pariteticità ed equiordinazione dei criteri previsti all’art. 5, sesto comma, della Legge n. 898/1970;
e) abbandono di una concezione astratta del criterio di “adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi”, a favore di una visione concreta, relativa allo specifico contesto coniugale;
f) valutazione necessariamente complessiva dell’intera storia coniugale e prognosi futura, determinando l’assegno in base all’età e allo stato di salute dell’avente diritto, nonchè alla durata del vincolo coniugale;
g) valorizzazione del profilo perequativo – compensativo dell’assegno, accertando in maniera rigorosa il nesso causale esistente tra scelte endo-familiari e situazione del richiedente al momento di scioglimento del vincolo coniugale.
Con tale pronuncia le Sezioni Unite hanno, dunque, abbandonato la prospettiva individualista fatta propria dalla Corte nel 2017 (Cass. n. 11504/2017), valorizzando il principio di solidarietà post coniugale nel pieno rispetto degli artt. 2 e 29 della Costituzione.
Diretta conseguenza di tale impostazione è che, al fine di stabilire se ed eventualmente in che misura spetti l’assegno divorzile, il Giudice dovrà procedere secondo l’iter logico sopra delineato.
In primo luogo dovrà comparare, anche d’ufficio, le condizioni economico – patrimoniali delle parti.
Qualora risulti che il richiedente è privo di mezzi adeguati o è oggettivamente impossibilitato a procurarseli, dovrà accertare rigorosamente le cause di questa sperequazione alla luce dei parametri indicati all’art. 5 sesto comma della Legge n. 898/1970.
In particolare dovrà valutare se ciò dipenda dal contributo che il richiedente ha apportato al nucleo familiare e alla creazione del patrimonio comune, sacrificando le proprie aspettative personali e professionali in relazione alla sua età e alla durata del matrimonio.
All’esito di tali valutazioni dovrà infine quantificare l’assegno divorzile, rapportandolo non (più) al pregresso tenore di vita familiare, né all’autosufficienza economica del richiedente, ma assicurando all’avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo fornito come sopra indicato.
I diritti successori
Quando la coppia è separata, se uno dei coniugi muore, il superstite gli succede esattamente come se fossero ancora sposati.
Il tutto a norma dell’art 585 c.c. che recita testualmente « Il coniuge cui non è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato. Nel caso in cui al coniuge sia stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato, si applicano le disposizioni del secondo comma dell’articolo 548 ».
A questa disposizione (art. 548 comma 2 c.c.) occorre quindi fare riferimento per comprendere quali sono i diritti successori del coniuge separato con addebito « Il coniuge cui è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. L’assegno è commisurato alle sostanze ereditarie e alla qualità e al numero degli eredi legittimi, e non è comunque di entità superiore a quella della prestazione alimentare goduta. La medesima disposizione si applica nel caso in cui la separazione sia stata addebitata ad entrambi i coniugi ».
In caso di divorzio, invece, alla morte dell’ex coniuge, quello sopravvissuto non può vantare alcun diritto successorio. Il patrimonio ereditario è devoluto interamente in favore degli eredi potenziali, primi tra tutti i figli.
Gli unici diritti che possono insorgere in favore del coniuge superstite divorziato, solo in presenza di alcune condizioni, sono: a) il diritto agli alimenti, corrisposti con assegno gravante sull’eredità se il coniuge superstite si trova in stato di bisogno e percepiva già un assegno di divorzio; b) il diritto alla pensione di reversibilità, di cui si dirà a breve.
Il diritto alla pensione di reversibilità
La separazione non fa venire meno il diritto del coniuge superstite a percepire la pensione di reversibilità dell’ex coniuge defunto. Questo diritto può essere chiesto anche se il coniuge superstite ha rinunciato all’eredità, perché magari questa era gravata da debiti.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 2606/2018, ha ribadito che la pensione di reversibilità spetta anche al coniuge separato con addebito. Accogliendo, infatti, il ricorso della vedova a cui era stata addebitata la separazione dal defunto marito ha confermato che la pensione di reversibilità, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 286 del 1987, va riconosciuta anche al coniuge separato per colpa o con addebito, equiparato sotto ogni profilo al coniuge superstite (separato o non), dovendosi applicare ad entrambe le ipotesi l’art. 22 della L. 21 luglio 1965, n. 903, che non richiede, quale requisito per ottenere la pensione di reversibilità, la vivenza a carico al momento del decesso del coniuge e lo stato di bisogno, ma unicamente l’esistenza del rapporto coniugale con il defunto pensionato o assicurato, rispondendo la tutela previdenziale allo scopo di porre il coniuge superstite al riparo dall’eventualità dello stato di bisogno, senza che detto stato (anche per il coniuge separato per colpa o con addebito) ne sia concreto presupposto e condizione.
Dunque, il coniuge separato ha diritto alla pensione di reversibilità anche se ha rinunciato all’eredità e anche se era separato con addebito.
In caso di divorzio, invece, l’ex coniuge superstite ha diritto solo a una quota della pensione di reversibilità (da dividere con la vedova in seconde nozze) che viene calcolata tenendo conto della durata del matrimonio, del diritto al mantenimento e delle condizioni economiche del soggetto beneficiario e, in ogni caso, solo in presenza di determinate condizioni: a) il rapporto di lavoro che dà diritto alla pensione deve risalire al periodo antecedente alla sentenza di divorzio; b) il coniuge superstite doveva avere diritto all’assegno divorzile periodico. Per cui, se l’ex coniuge sopravvissuto non aveva questo diritto o aveva percepito l’assegno in un’unica soluzione, non avrà diritto alla pensione di reversibilità; c) l’ex coniuge sopravvissuto dopo il divorzio non deve essere passato a nuove nozze.
A stabilire queste condizioni è l’art., 9 comma 2°, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 che, nel testo modificato dall’art. 13 della legge n. 74/1987, prevede « In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno a sensi dell’art. 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza ».
Il Trattamento di fine rapporto
Il Tfr è la liquidazione versata al lavoratore nel momento in cui il rapporto tra azienda e dipendente giunge al termine.
Il Tfr è una cifra di importo corrispondente all’incirca a una mensilità, che viene accantonata durante tutto il rapporto di lavoro e corrisposto quando si conclude.
Tornando però alla separazione e al divorzio, nel momento in cui il coniuge ha maturato il diritto al Tfr, al coniuge separato o divorziato spetta qualcosa?
In caso di separazione, il coniuge non ha alcun diritto sul Tfr
In assenza di una previsione legislativa che riconosca una quota al Tfr del coniuge separato, anche la giurisprudenza si è sempre espressa in senso negativo al riguardo, ritenendo inapplicabile l’interpretazione estensiva della norma che, invece, nella legge sul divorzio contempla questo diritto.
Ne consegue che, se dopo la pronuncia di separazione ma prima del giudizio di divorzio il coniuge smette di lavorare egli ha il diritto di disporre del suo Tfr (così come delle eventuali anticipazioni) senza che nulla sia dovuto all’ex coniuge separato, anche se quest’ultimo aveva diritto all’assegno di mantenimento.
L’unica cosa che potrà fare l’ex coniuge venuto a conoscenza del Tfr percepito dall’altro coniuge sarà quella di invitare il Giudice a considerare questa somma ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento (quando la separazione è in corso) o di un eventuale aumento dello stesso in sede di modifica delle condizioni di separazione.
In caso di divorzio al coniuge spetta una quota del Tfr.
Al coniuge divorziato la legge sul divorzio, all’art 12 bis riconosce una quota del Tfr nella misura del 40% se: a) titolare di un assegno divorzile periodico (se il versamento è avvenuto “una tantum” nessuna quota di Tfr è dovuta); b) l’ex coniuge non si è risposato; c) il Tfr è stato liquidato dopo la sentenza di divorzio, ma è frutto del lavoro svolto in tutto o in parte quando la coppia era ancora unita in matrimonio.
Questo principio è esposto molto chiaramente dalla Cassazione civile, nella sentenza n. 1348/2012 « In materia di determinazione della quota di indennità di buonuscita, cui ha diritto il coniuge, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, se non passato a nuove nozze, la base su cui calcolare la percentuale della L. n. 898 del 1970, ex art. 12 bis, comma 1, è costituita dall’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro. Ne deriva, in base al coordinamento tra il primo ed il secondo comma dell’articolo citato, che l’indennità dovuta deve computarsi calcolando il 40 per cento (percentuale prevista dal comma 2), dell’indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro, con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro coincise con il rapporto matrimoniale; risultato che si ottiene dividendo l’indennità percepita per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro, moltiplicando il risultato per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto matrimoniale e calcolando il 40 per cento su tale importo ».
- by Avv. Michele Sirica
- il Ottobre 5, 2020