

La pandemia ̶ originata dal contagio incontrollato su scala mondiale del Coronavirus Covid-19 ̶ investe inevitabilmente le situazioni giuridiche soggettive, e più in generale l’ambito della contrattualistica, occasionando spunti di riflessione per il giurista.
L’emergenza epidemiologica impatta, soprattutto, sulla prestazione dei medici, esposti a giudizi di responsabilità civile in tutti i casi sia ravvisabile un errore medico ai danni di un paziente affetto da Covid-19.
Il presente contributo, allora, si propone di tracciare i confini tra responsabilità medica ed esclusione della stessa, interrogandosi sulla possibilità se la pandemia, nel secondo caso, possa assurgere a causa di forza maggiore.
Ciò a maggior ragione in quanto ̶ alla luce di iniziative speculative da parte di studi legali che, durante il periodo emergenziale, pubblicizzavano servizi di assistenza legale a tutela dei familiari di vittime da Covid-19 ̶ taluni emendamenti, in sede di conversione del D. L. 18/2020, proponevano l’introduzione di un’esimente generalizzata che tutelasse la posizione giuridica dei sanitari che avessero prestato la propria attività nel contesto emergenziale, ma successivamente furono ritirati.
Come è noto, la L. 8 marzo 2017, n. 24 (cd. Legge Gelli-Bianco), ed entrata in vigore il 1° aprile 2017, ha diversificato il regime della responsabilità del medico rispetto a quello della struttura sanitaria.
A tal proposito è utile riportare le disposizioni dell’art. 7 Legge Gelli-Bianco, secondo cui« 1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorchè non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose.
2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonchè attraverso la telemedicina.
3. L’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta
dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge.
4. Il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al
presente articolo.
5. Le disposizioni del presente articolo costituiscono norme imperative ai sensi del codice civile ».
Il successivo art. 9 Legge Gelli-Bianco ha, poi, previsto l’esperibilità dell’azione di rivalsa da parte della struttura ̶ chiamata a rispondere della condotta antigiuridica del sanitario ex art. 1228 c.c. ̶ nei confronti del medico, limitata, tuttavia, ai soli casi di condotta dolosa o gravemente colposa.
Alla base dell’intervento del legislatore c’è una evidente protezione nei confronti del medico, scongiurando, dunque, il dilagare del ricorso alla cd. medicina difensiva e, più in generale, tutelando la posizione giuridica dei sanitari raggiunti quotidianamente da azioni giudiziarie intentate nei loro confronti.
Tale ratio legis trova conferma, altresì, nelle disposizioni (art. 5 Legge Gelli-Bianco) aventi ad oggetto la determinazione del risarcimento del danno, attribuendo eccezionale rilevanza ̶ diversamente dai princìpi del sistema risarcitorio fondato sull’art. 1223 c.c. ̶ alla condotta del medico: è imposto al giudice, infatti, di « tenere conto » del rispetto, da parte del sanitario, delle raccomandazioni di cui alle linee guida pubblicate dalla comunità scientifica, ovvero, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali.
L’art. 5 (Buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida), infatti, dispone che « 1. Gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali… ».
Specularmente l’art. 6 Legge Gelli-Bianco ha inserito nel codice penale il nuovo art. 590-sexies c.p. che esclude la punibilità del sanitario per i reati di cui agli artt. 589 c.p. (omicidio colposo) e 590 c.p. (lesioni colpose), nell’ipotesi in cui, essendo l’evento causato da imperizia, il medico si sia uniformato alle suddette indicazioni.
Infine, altro segnale dimostrativo del favor del legislatore a beneficio della posizione giuridica del medico è individuato dal rinvio alle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni private ai fini del calcolo del quantum risarcibile.
LA RESPONSABILITÀ DELL’ESERCENTE LA PROFESSIONE SANITARIA
La presente indagine si incentrerà sulla individuazione dei limiti della responsabilità del sanitario in un contesto eccezionale ̶ quale quello derivante dalla diffusione della pandemia da Covid-19 ̶ e, in particolare, sulla identificazione della cause di giustificazione idonee ad interrompere il nesso causale tra l’azione (o omissione) erronea del medico e il pregiudizio patito dal paziente (lesioni, esito infausto o contrazione della patologia in ambito ospedaliero).
Bisognerà, in altre parole, interrogarsi su quale sia la condotta concretamente esigibile dal medico in un contesto sanitario surreale, caratterizzato da cioè dall’insorgenza di una patologia scientificamente ignota e dall’elevata contagiosità; situazione aggravata dalla penuria sia di personale sanitario, sia di posti letto in terapia intensiva.
La responsabilità dell’esercente la professione sanitaria (come detto, di regola, avente natura extracontrattuale) addebitabile nel contesto emergenziale è riconducibile sia al momento della diagnosi (che si dipana nella erronea, ovvero ritardata diagnosi che abbia comportato un aggravamento della patologia, tuttavia scongiurabile in presenza di una diagnosi tempestiva), sia a quello successivo della somministrazione delle cure (ipotesi riconducibili a negligenza, imperizia o imprudenza nell’esecuzione del trattamento terapeutico, che abbia cagionato un danno alla salute del paziente); ipotesi non trascurabile è, poi, quella conseguente alla mancata adozione delle cautele imposte dalle leges artische portino un paziente ̶ affetto da diversa patologia ̶ a contrarre il Covid-19.
Viene qui in rilievo l’art. 2236 c.c. (Responsabilità del prestatore d’opera), il quale dispone che « Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave ».
La disposizione manda, cioè, esente da responsabilità il prestatore d’opera per quei danni cagionati nell’esecuzione di una prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, salvo la ricorrenza del dolo o della colpa grave.
Si ritiene applicabile l’art. 2236 c.c. a casi necessariamente straordinari ed eccezionali, in quanto: a) non adeguatamente studiati dalla scienza o sperimentati dalla pratica; b) nella scienza medica vi siano ancora dibattiti diversi ed incompatibili sui corretti sistemi diagnostici e terapeutici fra i quali il medico debba compiere una scelta.
Giova ricordare che tale norma, anche se dettata con specifico riferimento alla responsabilità contrattuale, si ritiene pacificamente che possa trovare applicazione anche in ambito aquiliano, in quanto prevede un limite di responsabilità per la prestazione dell’attività professionale in genere, sia che essa si svolga sulla base di un contratto, sia che venga riguardata al di fuori di un rapporto contrattuale vero e proprio.
La Corte costituzionale ha circoscritto l’applicabilità della norma ai soli casi di imperizia derivante dalla insufficiente preparazione del sanitario a risolvere problemi di eccezionale difficoltà, escludendone l’operatività rispetto ai danni causati per negligenza e imprudenza.
Ecco che così trovono bilanciamento interessi contrapposti: 1) del medico, che vede salvaguardata la propria posizione giuridica, con la delimitazione del livello di perizia dallo stesso esigibile in ragione del contesto emergenziale; 2) del paziente, che potrà contare su uno standard ordinario di diligenza e prudenza da parte del sanitario.
Alla luce di tali premesse, non vi è dubbio circa l’astratta applicabilità dell’esimente alla situazione emergenziale attuale. Il Coronavirus ̶ quale pandemia mondiale, mai studiata dalla Comunità scientifica ̶ integra senz’altro il caso eccezionale ex art. 2236 c.c.
Tale norma potrà trovare applicazione, dunque, nel caso in cui la terapia prescelta non abbia portato alla guarigione (proprio per l’assenza di linee guida o buone pratiche), ma anche per giustificare l’imperizia dei medici non specializzandi (o in possesso di specializzazioni non afferenti a malattie infettive), i quali, assunti nel contesto emergenziale per sopperire alle carenze di organico, abbiano ignorato incolpevolmente le leges artis del caso di specie.
Il ricorso all’art. 2236 c.c. appare, tra l’altro, coerente alla luce del Decreto 18/2020 che, all’art. 91, ha previsto apposite « Disposizioni in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici », il cui primo comma stabilisce che « il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti ». Si tratta, in sostanza, di una causa di giustificazione introdotta in favore del debitore il cui inadempimento sia da ricondurre causalmente all’osservanza delle misure di contenimento, allo scopo di riequilibrare i contratti divenuti iniqui per cause di forza maggiore, nonché salvaguardare la stabilità di contratti che sarebbero stati esposti a rischi distruttivi, con ricadute senz’altro negative sull’economia nazionale.
Si può, dunque, affermare che l’esercente la professione sanitaria potrà andare esente da responsabilità soltanto nel caso in cui la sua condotta imperita sia giustificata dall’assenza di linee guida o buone pratiche in grado di orientarlo.
Al contrario, nonostante il contesto emergenziale, sarà ritenuto responsabile qualora abbia causato un danno da inosservanza delle leges artis note, nonché abbia tenuto una condotta improntata alla negligenza o alla imprudenza.
Nello specifico, non vi sono dubbi sul ricorso all’art. 2236 c.c. per giustificare il pregiudizio patito dal paziente infetto (morte, lesione personale temporanea o permanente) che abbia riportato in conseguenza di un trattamento sanitario rivelatosi incongruo. In assenza di univoche indicazioni da parte della Comunità scientifica e, in un contesto globalmente eccezionale, l’imperizia del medico rinviene la propria giustificazione proprio nell’art. 2236 c.c., ferme l’osservanza delle ordinarie regole di diligenza e prudenza nell’esecuzione dei trattamenti.
Nell’ipotesi di tardiva diagnosi, in presenza di una sintomatologia palesemente riconducibile al Coronavirus, non pare possibile escludere a priori una grossolana imperizia da parte del medico: per esempio, non potrebbe escludersi la responsabilità del sanitario in via automatica, solo in ragione del complesso contesto emergenziale, all’ipotesi in cui un paziente affetto da crisi respiratoria tipicamente associata al Covid-19 sia sottoposto alle cure per una polmonite ordinaria.
In altri casi, la pandemia integra il caso di forza maggiore, idoneo ad escludere l’illecito del sanitario. È il caso del danno derivante dalla somministrazione di un farmaco c.d. off-label, ossia il medicinale già registrato ma utilizzato in modo non conforme a quello previsto.
In un contesto emergenziale contraddistinto dalla assenza di univoche indicazioni terapeutiche, è solito il ricorso a terapie sperimentali o a somministrare farmaci registrati per un diverso impiego, i quali, però, provochino un danno biologico al paziente.
Non sembra potersi dubitare che in alcuni casi l’attività medica si presti ad essere qualificata come attività pericolosa ex art. 2050 c.c.: o per la tipologia dei mezzi impiegati; o per la peculiare terapia prescelta.
Come è noto, la dottrina maggioritaria ritiene che la responsabilità prevista dall’art. 2050 c.c. comporta una presunzione di colpevolezza in capo al danneggiante, il quale non è ammesso a provare il contrario, potendo soltanto dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Ne consegue che, negli ambiti sanitari che possano definirsi pericolosi, non può trovare applicazione l’art. 2236 c.c., il quale presuppone un’indagine sul versante soggettivo in capo al prestatore d’opera e che è, tuttavia, escluso dal regime di cui all’art. 2050 c.c.
Tanto premesso, nel caso di pregiudizio derivante dalla somministrazione di un farmaco “fuori etichetta” (così come per la terapia sperimentale), sul paziente graverà la prova della sussistenza del danno e del nesso eziologico tra quest’ultimo e la condotta del medico, mentre sul medico incomberà un onere probatorio rafforzato. Quest’ultimo, infatti, per andare esente da responsabilità, dovrà dimostrare che la peculiarità del caso in esame rendeva opportuna la somministrazione del farmaco contestato stante: a) l’assenza di indicazioni terapeutiche per trattare il Coronavirus; b) l’accreditamento dell’impiego di quel medicinale fuori etichetta da parte di studi scientifici; nonché ̶ in fase esecutiva ̶ c) l’avvenuta attenta sorveglianza in ordine allo svolgimento della cura ed alla sua evoluzione, ed esempio mediante la puntuale annotazione di reazioni al farmaco non registrate dagli studi esistenti.
Va, infine, analizzato l’ulteriore profilo di responsabilità del medico relativo al danno da lesione del diritto di autodeterminazione del paziente.
Come ribadito dalla giurisprudenza più recente, la lesione del diritto del paziente ad essere sottoposto a trattamenti soltanto previo consenso può essere foriera di due differenti pregiudizi: il danno alla salute, ravvisabile allorquando sia provato che il paziente – se informato – avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento (o si sarebbe sottoposto a diverso intervento) da cui ha subito conseguenze invalidanti; il danno da lesione del diritto di autodeterminazione, sussistente laddove, a causa del deficit informativo, al paziente sia residuato un danno (patrimoniale o non patrimoniale) diverso dalla lesione del diritto alla salute.
Sul punto va, tuttavia, precisato che il diritto di autodeterminazione, pur avendo fondamento costituzionale (artt. 2, 13, 32 Cost.), incontra taluni limiti in situazioni eccezionali: da un lato, l’urgenza dell’intervento sanitario che non renda materialmente possibile chiedere il consenso informato; dall’altro, il pubblico interesse previsto da una apposita disposizione di legge ex art. 32, secondo comma, Cost.
Ne consegue che, nel caso di specie, il sanitario andrà esente da responsabilità qualora il mancato rilascio del consenso informato sia dovuto alla assoluta urgenza del trattamento sanitario; circostanza, quest’ultima, che, soprattutto nei momenti della piena emergenza, ha purtroppo registrato una percentuale rilevante di casi.
LA RESPONSABILITÀ DELLA STRUTTURA SANITARIA (PUBBLICA O PRIVATA)
La giurisprudenza ha, già da tempo, individuato un regime di responsabilità della struttura sanitaria (pubblica o privata) autonomo rispetto alla condotta colposa del personale medico. Trattasi, in altri termini, di fattispecie di responsabilità non imputabili al medico ma alla struttura sanitaria nella quale egli abbia operato: è, per esempio, il caso del decesso o aggravamento della patologia del paziente causati da un ricovero tardivo in terapia intensiva.
Tale responsabilità si traduce nella colposa carenza organizzativa della struttura stessa e trova fondamento giuridico nel contratto atipico di spedalità comprensivo, oltre che delle prestazioni mediche in senso stretto, di una serie di altre prestazioni, quali alloggio, ristorazione, disponibilità di attrezzature adeguate, sicurezza degli impianti, custodia dei pazienti, apprestamento di medicinali, nonché messa a disposizione del personale medico, ausiliario e paramedico, nel numero e con le competenze adeguati, anche nelle situazioni di urgenza.
L’orientamento giurisprudenziale è stato positivizzato dall’intervento legislativo con la menzionata Legge Gelli-Bianco che, nell’individuare nella sicurezza delle cure una parte costitutiva del diritto alla salute, ne ha predicato, all’art. 1, la realizzazione « anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative ».
Si parla di danno c.d. da “disorganizzazione” o “per inefficienza”, conseguente ad una violazione dello standard medio di organizzazione ed efficienza della struttura sanitaria, quale un paziente può ragionevolmente attendersi e prevedere.
Nello specifico, la responsabilità della struttura è ravvisabile quando non siano garantiti: a) adeguate tipologie o sotto il profilo numerico di strumentazione o macchinari necessari per la prestazione sanitaria, inclusi quelli necessari per fronteggiare emergenze; b) presenza di personale sanitario in numero e con una specializzazione adeguati; c) sicurezza dell’ambiente ospedaliero; d) custodia e protezione dei pazienti più vulnerabili (malati psichiatrici, minori, anziani, etc.).
L’attuale esperienza pandemica ci induce ad ipotizzare diverse situazioni che di fatto si stanno materializzando. Si pensi al caso della morte di un paziente non ricoverato in terapia intensiva per insufficienza dei posti letto, ovvero non curato adeguatamente per carenza di personale sanitario (o personale specializzato), o ancora, all’assenza o inadeguata disponibilità di farmaci o strumentazioni. Ancor più frequenti sono i casi in cui i pazienti, ricoverati per patologie diverse, contraggono il Covid-19 in ambiente ospedaliero, a causa di carenze organizzative della struttura.
La struttura sanitaria risponde ̶ ex art. 1218 c.c. ̶ dei danni patiti dal paziente a seguito di infezioni contratte durante la degenza, nell’ipotesi in cui tali pregiudizi siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura.
Ne consegue un regime probatorio diversificato. In particolare, incombe sul paziente danneggiato la prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica, nonché del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione del personale della struttura, restando a carico di quest’ultima la prova che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente nel rispetto degli standard richiesti dalla disciplina di settore, e che l’evento lesivo sia stato determinato da un accadimento imprevisto ed imprevedibile.
La prova liberatoria incombente sulla struttura sanitaria è, peraltro, particolarmente gravosa, consistendo nella dimostrazione seria e rigorosa di aver fatto tutto il possibile per evitare l’insorgenza dell’infezione stessa, vale a dire provare di avere posto in essere ogni cautela e precauzione, funzionale, strutturale e di metodo, al fine di realizzare e mantenere costante un’ottimale sanificazione della struttura, dei locali, degli ambienti, dei mezzi e del personale addetto.
Deve ritenersi insufficiente, a tal fine, la mera produzione di protocolli di sterilizzazione, in assenza della prova delle condotte concretamente poste in essere dall’istituto per una efficace e consapevole opera di sanificazione. In taluni casi, si è anche valorizzato – al fine di affermare la responsabilità della struttura – la mancata prova, da parte di quest’ultima, di avere adeguatamente formato ed aggiornato il personale infermieristico e medico, dimostrandone, con allegazione di attestati, la partecipazione a corsi in materia, né di avere compiuto controlli a campione per verificare il rispetto di tali regole da parte del personale medico e paramedico, nonché della corretta tenuta dello strumentario e comportamento igienico della equipe: lavaggio mani, prelievo degli strumenti dall’autoclave ovvero apertura degli strumenti sigillati, etc. Ne deriva che l’evidenza di grossolane carenze compilative nel diario clinico del paziente danneggiato, non permettendo di esprimere un motivato giudizio in merito alla gestione clinica di tale complicanza infettiva, e quindi di valutare l’idoneità dei provvedimenti terapeutici effettuati con riferimento alle tempistiche di attuazione dei provvedimenti intrapresi determina ex se la responsabilità della struttura sanitaria. Si va a configurare così una responsabilità “quasi oggettiva” a carico della struttura: solo in presenza della prova di aver impiegato ogni cautela possibile, potrebbe concludersi per una diversa origine dell’infezione, e quindi escludere la responsabilità in capo all’istituto sanitario.
Tanto premesso, nella attuale situazione pandemica è ipotizzabile che l’eccezionalità della patologia e, quindi, l’assenza di reparti specializzati, da un lato, la limitatezza obiettiva della strumentazione e dei posti letto in terapia intensiva (dovute alle limitazioni finanziarie e quindi non imputabili alla struttura sanitaria), dall’altro,integrino la prova liberatoria idonea ad esentare la struttura sanitaria da ogni addebito per danno derivante da inefficienza organizzativa.
Pare, invece, difficile escludere a priori la responsabilità con riferimento al danno da contagio in ambiente ospedaliero. L’addebito sarà pacifico ove risultino una mancata sterilizzazione, o un inadeguato isolamento dei reparti Covid; la struttura dovrebbe, al contempo, esser ritenuta responsabile anche nel caso in cui non riesca a far fronte alla (rigorosa) prova liberatoria prima menzionata.
CONCLUSIONI
Alla luce della presente analisi, può agevolmente sostenersi che l’ordinamento giuridico già contiene, nel suo interno, disposizioni idonee a regolare la responsabilità sanitaria (del medico e della struttura) nel contesto emergenziale.
In relazione all’esercente la professione sanitaria, si è dato prova che la pandemia possa integrare il caso di forza maggiore (è il caso della somministrazione di farmaci “fuori etichetta” o del mancato consenso informato) ovvero rendere la prestazione « di speciale difficoltà », a norma dell’art. 2236 c.c.
Quanto, invece, alla struttura sanitaria, la responsabilità del danno da inefficiente organizzazione potrà essere esclusa adducendo la causa non imputabile (obiettiva limitatezza dei posti letto e strumentazioni).
La sussistenza della causa di giustificazione esclude l’illiceità dell’operato dei sanitari e il conseguente diritto del paziente al risarcimento dei danni.
- by Avv. Michele Sirica
- il Ottobre 24, 2020